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Non tutti ci avranno fatto caso, ma dal primo gennaio scorso sulle uova
- tranne non siano quelle che vi ha regalato il vicino, in campagna
- sono stampate delle sequenze di lettere e numeri. Sono il frutto
di un obbligo di legge (europeo) che i tecnici chiamano
<rintracciabilità e tracciabilità> e che dall'inizio del 2005
sarà esteso a tutti gli alimenti in commercio.
Tracciabilità - già in vigore per pesce, carni e uova -
significa la possibilità, attraverso quel codice, di risalire alla
storia di quell'uovo fino alla gallina (al gruppo di galline) che lo
ha deposto. Rintracciabilità è il percorso inverso,
partendo dal produttore, arrivare ai banchi dove gli alimenti sono venduti.
Assoluta trasparenza? In realtà il consumatore resta perplesso di fronte
a una serie di numeri e lettere che non
capisce. Alcuni produttori forniscono una guida, sulla
confezione, per leggerlo. Ma, per lo più, quei segni
risultano comunque
incomprensibili.
La difficoltà non è solo
per i consumatori <<comuni>>. Con quattro diverse
confezioni di uova, abbiamo provato a fare la lettura con l'ausilio
di un esperto di codici, alla Indicod, l'ente internazionale che
gestisce i codici a barre, garantendo che siano uniformati in
tutto il mondo.
Nel vecchio ed elegante
edificio di via Serbelloni 5, la sede milanese, ci riceve Stefano
Bergamin - responsabile del settore agro-alimentare - che,
gentilmente, si adatta a scartare con noi le confezioni per
verificare i codici: <<La prima cifra a sinistra>>, spiega guardando l'uovo, <<va da zero a 3 e indica che tipo di allevamento lo ha prodotto: biologico, all'aperto o in gabbia. Le due lettere che seguono , IT, ci dicono che l'uovo è italiano. Poi ci sono tre cifre che sono un codice Istat che indica il comune e due lettere per la provincia, per esempio MI per Milano. Infine, tre cifre che sono il codice dell'allevamento>>.
Come si possono decripttare
queste ultime tre cifre per sapere chi, effettivamente, ha
<<prodotto>> le uova? Bergmain ha un
indirizzo Internet che riporta questa informazione, gestito dalla
Regione Lombardia. Lo apre: una sequenza di numeri e di nomi. Ma i
nostri quattro campioni, tutti di marche importanti, non consentono
di arrivare al nome della fattoria di produzione. Perchè? Lo
chiediamo a Piergiorgio Sabatini, docente
universitario e titolare della Farm Computer System
di Cremona, azienda che si occupa proprio di sistemi di
tracciabilità alimentare: <<Dagli elenchi dei codici non si
può arrivare ai nomi dei produttori perchè siamo stati costretti a
toglierli.
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Abbiamo inviato una
richiesta formale al Garante della privacy e, dopo 14 mesi, ha
risposto che il dato è coperto se non
c'è il consenso degli interessati. Il nome del produttore, per
esempio di carne, da cui una bistecca proviene può essere comunicato
al consumatore solo in presenza di autorizzazione scritta. Cosa
impossibile: non so se ha idea di quanti siano i produttori. Mi pare
che, così, più che la privacy si garantisca l'anonimato. Se questi
sono i presupposti, è chiaro che la tracciabilità degli alimenti non
esisterà mai>>. Quindi? Se ne deduce che il consumatore, anche
se espertissimo, non ha accesso all'informazione fondamentale: chi ha
prodotto l'uovo (la bistecca, il merluzzo) che ho acquistato? Tentiamo un'altra strada, e stavolta le
cose diventano molto più semplici. Ci
rivolgiamo a un produttore ben organizzato, la Coop. E chiediamo di
ricostruirci il percorso che va da un uovo alla gallina. In poche
ore il responsabile del settore, Corrado Benazzi, invia un fax: il
nostro uovo, comprato a Roma, attraverso il codice ha dato luogo a
tutta la trafila. L'uovo è marchiato 2IT059VT673: allevato a terra,
italiano, comune di Viterbo, provincia di Viterbo, fattoria di
Raffaella Gaggi in Grotte Santo Stefano. Questo dice il codice. La
Coop, attraverso le sue informazioni, aggiunge che i pulcini del
gruppo che lo ha prodotto sono stati acquistati a Cocconato d'Asti,
sono nati il 16 gennaio del 2003, di razza HY-LINE Brown, sono stati
consegnati il 17 gennaio allo svezzatore (Zanotti, a Savignano sul
Rubicone), sono stati nutriti con mangimi <<senza Ogm>>
della M.B. Mangimi di Longiamo (Forlì-Cesena). Hanno subìto un esame
per la salmonellosi il 3 maggio, con esito negativo. Sono stati,
quindi, <<accasati>> da Raffaella Gaggi a 111 giorni di
vita. Qui sono stati nutriti con mangimi Superstella di Forcole
Amelia (Terni), con alimenti esclusivamente vegetali, senza Ogm. C'è
anche il lotto del mangime, prodotto il 18 maggio alle 9.58, il
silos di stoccaggio (n° 47), un nuovo esame per la salmonella. Poi
la data di deposizione (2 giugno 2004). L'uovo è stato selezionato a
Sant'Angelo di Mercole (Perugia), imballato il giorno stesso, e
inviato all'interporto di Roma, via Collatina (verso le 22,30).
Smistato con automezzo (targato CC821CL) fino all'Ipercoop Casilina
la mattina del 3 giugno. Lì lo abbiamo comprato. Andando nella fattoria in provincia di Viterbo,
Raffaella Gaggi ci spiega che quell'uovo viene da quel
capannone (lo mostra) e da una delle galline che contiene (che
guardano perplesse, con la consueta fissità della specie,
inconsapevoli della tracciabilità).
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Come si vede, il
codice può servire alle aziende per avere informazioni
dettagliatissime. Ed essere utile, per esempio, in caso di
emergenza sanitaria. Poniamo che ci sia un caso di salmonellosi:
attraverso il codice dell'uovo si potrà risalire al produttore e
persino al capannone dal quale è uscito. Si potrà, in pratica,
ridurre molto lo spettro dell'inchiesta e isolare rapidamente il
gruppo di animali sospetti (questo per carne, pesce e così via). O,
al contrario, bloccare i prodotti che vengono da capi a rischio,
anche confusi nello stesso lotto (come accade per le
uova). Tutti <<risultati>>
importanti per le aziende e, in casi estremi, per la salute
pubblica. Ma che non hanno nulla a che fare con l'informazione al
consumatore. Commenta Carlo Cannella, docente di Scienza
dell'alimentazione alla Sapienza di Roma: <<La tracciabilità,
nella realtà, è uno strumento neutro che non conferisce ai prodotti
alimentari una particolare qualità, ma serve ai produttori. Lo dico
per un motivo preciso: non vorrei che, dal 2005, con la scusa che
diventa un costo
aggiuntivo, la facessero pagare a noi>>. Prosegue il professore: <<L'etichetta, invece,
dovrebbe contenere in modo accessibile e con terminologia semplice e possibilmente unificata
le informazioni per il consumatore su natura,
provenienza e qualità dei prodotti>>. Precursore nel mettere un codice sul
guscio di ogni uovo è stato un grande produttore italiano,
Ovito, 13 per cento del mercato italiano (circa 2 milioni
di galline). Racconta il titolare dell'azienda, Torquato Novelli,
nella sua sede vicino Terni, in Umbria una palazzina della zona
industriale: <<La cosa venne da sè, da un'esigenza aziendale.
Ci accorgemmo che alcuni nostri clienti disonesti, nel napoletano,
sostituivano le nostre uova di alta qualità con altre di scarso
pregio, lasciandole, naturalmente, nella nostra confezione.
Decidemmo di marchiare tutte le uova, in modo da garantirci. In
principio scrivemmo solo "Ovito". Poi aggiungemmo altre
informazioni: lotto, luogo di provenienza. Quindi il capannone dal
quale l'uovo era uscito. Questo ci garantiva, ma serviva anche a
razionalizzare il lavoro, ad avere sempre sotto controllo tutta la
produzione. Quando venne la legge eravamo già in
regola>>. Novelli non ha difficoltà a
concordare sul fatto che il consumatore quei codici non li capisce
per niente: <<Ma noi possiamo scrivere sulle confezioni che il
prodotto è tutto tracciato, e questo garantisce,
rassicura>>. In realtà le informazioni che oggi si
possono ottenere non salvaguardano comunque da alcuni processi che
molti consumatori (se li conoscessero) troverebbero sgraditi.
Prendiamo la questione Ogm. Novelli, come la Coop, scrive sulle
confezioni che queste uova <<non contengono Ogm>>. Cosa
vuol dire? Che le galline non sono state allevate con mangime Ogm.
Ma se un produttore li avesse usati, non avrebbe l'obbligo di
dichiararlo sulla confezione. La legge, infatti, dice che chi
produce i mangimi Ogm deve dichiararlo. Ma non che deve farlo chi
li compra per darli alle galline. Che gli Ogm siano dannosi o no, il
consumatore in queste condizioni non può scegliere. Può solo - se
conosce la questione - comprare uova che si dichiarano senza
Ogm. Altro esempio. Alcuni
produttori mettono coloranti sintetici nel mangime in modo da
ottenere uova dal tuorlo molto rosso. Dice Novelli:
<<Si vedono cose spaventose, colori innaturali>>. Mostra
una bozza di contratto di una grande multinazionale: <<Come
vede richiedono lotti di uova di diverso tipo. Quando mettono una
certa sigla si riferiscono a tuorli che devono per forza essere
colorati sinteticamente. Ho dovuto rispondere che, a quella voce,
non possiamo far fronte: non usiamo quei
coloranti>>. Ma la legge
non prevede di dare questa informazione. <<Si forniscono dati
molto meno importanti>>, dice Emanuele Piccari, dell'Unione
Consumatori. <<Il sistema di allevamento: se è biologico, può
anche avere un effetto sull'uovo. Ma se è a terra, in gabbia o
all'aperto? Non fa differenza sulla qualità del prodotto>>.
Magari fa differenza per le galline. Ma questo con il prodotto
c'entra poco. Dal 2005 la questione si
estenderà a tutti gli alimenti, portandosi dietro i problemi
irrisolti in termini di comunicazione. Il ministero delle Attività
produttive, finora, non ha fatto sapere come le aziende potranno
attrezzarsi per realizzare la <<tracciabilità>> di tutti
i prodotti alimentari. Ammettono al ministero dell'Agricoltura:
<<Stiamo lavorando, per la nostra parte, ma non siamo ancora
pronti>>. E mancano solo sei mesi all'ora X. <<In
realtà>>, racconta Novelli, <<le aziende stanno già
organizzandosi per conto loro. O meglio: erano già organizzate. I
grandi gruppi di distribuzione stabiliscono che metodo usare e
impongono a tutti i loro fornitori di adeguarsi. Accade sempre
così>>. Ma quasi certamente il
consumatore non avrà nessuna informazione in più, se non
criptata e incomprensibile. <<La vera informazione al
cliente>>, osserva Stefano Masini della Coldiretti, <<è
un obiettivo che la legge fissa per il futuro. Per adesso si tratta,
ancora, di cautele rivolte alle aziende e alle autorità
saniatrie>>. A noi, di certo, no.
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