Il Venerdì di Repubblica
di Attilio Giordano
18/06/2004 
Nome in codice TRACCIABILITA'   Torna elenco articoli
 
 


Non tutti ci avranno fatto caso, ma dal primo gennaio scorso sulle uova - tranne non siano quelle che vi ha regalato il vicino, in campagna - sono stampate delle sequenze di lettere e numeri. Sono il frutto di un obbligo di legge (europeo) che i tecnici chiamano <rintracciabilità e tracciabilità> e che dall'inizio del 2005 sarà esteso a tutti gli alimenti in commercio. Tracciabilità - già in vigore per pesce, carni e uova - significa la possibilità, attraverso quel codice, di risalire alla storia di quell'uovo fino alla gallina (al gruppo di galline) che lo ha deposto. Rintracciabilità è il percorso inverso, partendo dal produttore, arrivare ai banchi dove gli alimenti sono venduti. Assoluta trasparenza? In realtà il consumatore resta perplesso di fronte a una serie di numeri e lettere che non capisce. Alcuni produttori forniscono una guida, sulla confezione, per leggerlo. Ma, per lo più, quei segni risultano comunque incomprensibili.
La difficoltà non è solo per i consumatori <<comuni>>. Con quattro diverse confezioni di uova, abbiamo provato a fare la lettura con l'ausilio di un esperto di codici, alla Indicod, l'ente internazionale che gestisce i codici a barre, garantendo che siano uniformati in tutto il mondo.
Nel vecchio ed elegante edificio di via Serbelloni 5, la sede milanese, ci riceve Stefano Bergamin - responsabile del settore agro-alimentare - che, gentilmente, si adatta a scartare con noi le confezioni per verificare i codici: <<La prima cifra a sinistra>>, spiega guardando l'uovo, <<va da zero a 3 e indica che tipo di allevamento lo ha prodotto: biologico, all'aperto o in gabbia. Le due lettere che seguono , IT, ci dicono che l'uovo è italiano. Poi ci sono tre cifre che sono un codice Istat che indica il comune e due lettere per la provincia, per esempio MI per Milano. Infine, tre cifre che sono il codice dell'allevamento>>.
Come si possono decripttare queste ultime tre cifre per sapere chi, effettivamente, ha <<prodotto>>  le uova? Bergmain ha un indirizzo Internet che riporta questa informazione, gestito dalla Regione Lombardia. Lo apre: una sequenza di numeri e di nomi. Ma i nostri quattro campioni, tutti di marche importanti, non consentono di arrivare al nome della fattoria di produzione. Perchè? Lo chiediamo a Piergiorgio Sabatini, docente universitario e titolare della Farm Computer System di Cremona, azienda che si occupa proprio di sistemi di tracciabilità alimentare: <<Dagli elenchi dei codici non si può arrivare ai nomi dei produttori perchè siamo stati costretti a toglierli.

Abbiamo inviato una richiesta formale al Garante della privacy e, dopo 14 mesi, ha risposto che il dato è coperto se non c'è il consenso degli interessati. Il nome del produttore, per esempio di carne, da cui una bistecca proviene può essere comunicato al consumatore solo in presenza di autorizzazione scritta. Cosa impossibile: non so se ha idea di quanti siano i produttori. Mi pare che, così, più che la privacy si garantisca l'anonimato. Se questi sono i presupposti, è chiaro che la tracciabilità degli alimenti non esisterà mai>>. Quindi? Se ne deduce che il consumatore, anche se espertissimo, non ha accesso all'informazione fondamentale: chi ha prodotto l'uovo (la bistecca, il merluzzo) che ho acquistato?
Tentiamo un'altra strada, e stavolta le cose diventano molto più semplici. Ci rivolgiamo a un produttore ben organizzato, la Coop. E chiediamo di ricostruirci il percorso che va da un uovo alla gallina. In poche ore il responsabile del settore, Corrado Benazzi, invia un fax: il nostro uovo, comprato a Roma, attraverso il codice ha dato luogo a tutta la trafila. L'uovo è marchiato 2IT059VT673: allevato a terra, italiano, comune di Viterbo, provincia di Viterbo, fattoria di Raffaella Gaggi in Grotte Santo Stefano. Questo dice il codice. La Coop, attraverso le sue informazioni, aggiunge che i pulcini del gruppo che lo ha prodotto sono stati acquistati a Cocconato d'Asti, sono nati il 16 gennaio del 2003, di razza HY-LINE Brown, sono stati consegnati il 17 gennaio allo svezzatore (Zanotti, a Savignano sul Rubicone), sono stati nutriti con mangimi <<senza Ogm>> della M.B. Mangimi di Longiamo (Forlì-Cesena). Hanno subìto un esame per la salmonellosi il 3 maggio, con esito negativo. Sono stati, quindi, <<accasati>> da Raffaella Gaggi a 111 giorni di vita. Qui sono stati nutriti con mangimi Superstella di Forcole Amelia (Terni), con alimenti esclusivamente vegetali, senza Ogm. C'è anche il lotto del mangime, prodotto il 18 maggio alle 9.58, il silos di stoccaggio (n° 47), un nuovo esame per la salmonella. Poi la data di deposizione (2 giugno 2004). L'uovo è stato selezionato a Sant'Angelo di Mercole (Perugia), imballato il giorno stesso, e inviato all'interporto di Roma, via Collatina (verso le 22,30). Smistato con automezzo (targato CC821CL) fino all'Ipercoop Casilina la mattina del 3 giugno. Lì lo abbiamo comprato.
Andando nella fattoria in provincia di Viterbo, Raffaella Gaggi ci spiega che quell'uovo viene da quel capannone (lo mostra) e da una delle galline che contiene (che guardano perplesse, con la consueta fissità della specie, inconsapevoli della tracciabilità).

Come si vede, il codice può servire alle aziende per avere informazioni dettagliatissime. Ed essere utile, per esempio, in caso di emergenza sanitaria. Poniamo che ci sia un caso di salmonellosi: attraverso il codice dell'uovo si potrà risalire al produttore e persino al capannone dal quale è uscito. Si potrà, in pratica, ridurre molto lo spettro dell'inchiesta e isolare rapidamente il gruppo di animali sospetti (questo per carne, pesce e così via). O, al contrario, bloccare i prodotti che vengono da capi a rischio, anche confusi nello stesso lotto (come accade per le uova).
Tutti <<risultati>> importanti per le aziende e, in casi estremi, per la salute pubblica. Ma che non hanno nulla a che fare con l'informazione al consumatore. Commenta Carlo Cannella, docente di Scienza dell'alimentazione alla Sapienza di Roma: <<La tracciabilità, nella realtà, è uno strumento neutro che non conferisce ai prodotti alimentari una particolare qualità, ma serve ai produttori. Lo dico per un motivo preciso: non vorrei che, dal 2005, con la scusa che diventa un costo aggiuntivo, la facessero pagare a noi>>. Prosegue il professore: <<L'etichetta, invece, dovrebbe contenere in modo accessibile e con terminologia semplice e possibilmente unificata le informazioni per il consumatore su natura, provenienza e qualità dei prodotti>>.
Precursore nel mettere un codice sul guscio di ogni uovo è stato un grande produttore italiano, Ovito, 13 per cento del mercato italiano (circa 2 milioni di galline). Racconta il titolare dell'azienda, Torquato Novelli, nella sua sede vicino Terni, in Umbria una palazzina della zona industriale: <<La cosa venne da sè, da un'esigenza aziendale. Ci accorgemmo che alcuni nostri clienti disonesti, nel napoletano, sostituivano le nostre uova di alta qualità con altre di scarso pregio, lasciandole, naturalmente, nella nostra confezione. Decidemmo di marchiare tutte le uova, in modo da garantirci. In principio scrivemmo solo "Ovito". Poi aggiungemmo altre informazioni: lotto, luogo di provenienza. Quindi il capannone dal quale l'uovo era uscito. Questo ci garantiva, ma serviva anche a razionalizzare il lavoro, ad avere sempre sotto controllo tutta la produzione. Quando venne la legge eravamo già in regola>>.
Novelli non ha difficoltà a concordare sul fatto che il consumatore quei codici non li capisce per niente: <<Ma noi possiamo scrivere sulle confezioni che il prodotto è tutto tracciato, e questo garantisce, rassicura>>. In realtà le informazioni che oggi si possono ottenere non salvaguardano comunque da alcuni processi che molti consumatori (se li conoscessero) troverebbero sgraditi. Prendiamo la questione Ogm. Novelli, come la Coop, scrive sulle confezioni che queste uova <<non contengono Ogm>>. Cosa vuol dire? Che le galline non sono state allevate con mangime Ogm. Ma se un produttore li avesse usati, non avrebbe l'obbligo di dichiararlo sulla confezione. La legge, infatti, dice che chi produce i mangimi Ogm deve dichiararlo. Ma non che deve farlo chi li compra per darli alle galline. Che gli Ogm siano dannosi o no, il consumatore in queste condizioni non può scegliere. Può solo - se conosce la questione - comprare uova che si dichiarano senza Ogm.
Altro esempio. Alcuni produttori mettono coloranti sintetici nel mangime in modo da ottenere uova dal tuorlo molto rosso. Dice Novelli: <<Si vedono cose spaventose, colori innaturali>>. Mostra una bozza di contratto di una grande multinazionale: <<Come vede richiedono lotti di uova di diverso tipo. Quando mettono una certa sigla si riferiscono a tuorli che devono per forza essere colorati sinteticamente. Ho dovuto rispondere che, a quella voce, non possiamo far fronte: non usiamo quei coloranti>>.
Ma la legge non prevede di dare questa informazione. <<Si forniscono dati molto meno importanti>>, dice Emanuele Piccari, dell'Unione Consumatori. <<Il sistema di allevamento: se è biologico, può anche avere un effetto sull'uovo. Ma se è a terra, in gabbia o all'aperto? Non fa differenza sulla qualità del prodotto>>. Magari fa differenza per le galline. Ma questo con il prodotto c'entra poco.
Dal 2005 la questione si estenderà a tutti gli alimenti, portandosi dietro i problemi irrisolti in termini di comunicazione. Il ministero delle Attività produttive, finora, non ha fatto sapere come le aziende potranno attrezzarsi per realizzare la <<tracciabilità>> di tutti i prodotti alimentari. Ammettono al ministero dell'Agricoltura: <<Stiamo lavorando, per la nostra parte, ma non siamo ancora pronti>>. E mancano solo sei mesi all'ora X. <<In realtà>>, racconta Novelli, <<le aziende stanno già organizzandosi per conto loro. O meglio: erano già organizzate. I grandi gruppi di distribuzione stabiliscono che metodo usare e impongono a tutti i loro fornitori di adeguarsi. Accade sempre così>>.
Ma quasi certamente il consumatore non avrà nessuna informazione in più, se non criptata e incomprensibile. <<La vera informazione al cliente>>, osserva Stefano Masini della Coldiretti, <<è un obiettivo che la legge fissa per il futuro. Per adesso si tratta, ancora, di cautele rivolte alle aziende e alle autorità saniatrie>>. A noi, di certo, no.